Prey - Guerrieri, giochiamo a fare la guerra?



Prey è attualmente, nonché ufficialmente, il quinto film di Predator. Quinto capitolo di quella diventata una serie di film, prima. Un multi-media franchise comprensivo di romanzi, fumetti, videogiochi e qualunque altra cosa su cui si possa schiaffare un marchio registrato, poi.

In altre parole, significa che dal 1987, anno in cui uscì il film originale con Arnold Schwarzenegger, da Predator sono stati capaci di tirar fuori l’impossibile. Appunto per questo, nell’Anno Domini 2022, diventa ancor più difficile vedere un film come Prey.

Nel senso, con trentacinque anni sul groppone, con tonnellate di storie e storielle venute su nell’arco di oltre tre decenni da media di ogni tipo, diventa difficile credere che possa esistere un film del genere. Un film che, essenzialmente, non ci prova nemmeno lontanamente.

No, il bello non è manco questo. Prey è un film assolutamente agghiacciante per tutta ‘na serie di altri motivi che per lo più, fanno rima con accondiscendenza. Un continuo, goffo e ottuso tentativo di assecondare, disperatamente, le attuali politiche di genere. 

Prey o il Predator delle pari opportunità


Così, per capirci, proviamo a metterla usando le parole di Bill Burr: “Non c’è assolutamente nulla di più patetico di un uomo che dice di essere femminista. Sai perché? Guardami: sono un bianco caucasico, talmente bianco che più bianco non si può.” 

“Un uomo che dice di essere femminista è come se io andassi in giro a dire di essere un pantera nera: "Yo, abbasso la repressione dell’uomo bianco!", "Yo, potere ai fratelli neri!"… No, seriamente, quanto sarebbe ridicola una cosa del genere?”  

“Tu puoi appoggiare una causa. Condividere una causa. Simpatizzare per essa, supportarla, incoraggiarla e sostenerla. Quello che non puoi fare è appropriartene. Dire di esserne parte quando, chiaramente, non è così. Perché non puoi fingere di essere ciò che non sei.”

Aspetta, aspetta: mettiamola in un altro modo ancora, dai. Allora, prendiamo un attimo Scary Movie, ok? Ora, uno non sta dicendo che adesso tutti devono, per forza, aver visto ‘sto film, eh. Però, difficile non averlo mai manco sentito nominare, insomma. Giusto?

Metti, però, il fatto che forse non tutti sanno che Scary Movie è un progetto ideato, scritto, diretto e pure interpretato dai fratelli Wayans. Dieci fratelli, afroamericani, quasi tutti impegnati nel mondo dello spettacolo a vari livelli.

Per dire, fra loro Damon è il più famoso, in Italia almeno, per la sitcom Tutto in famiglia; ma non è che gli altri siano completamente sconosciuti. Nel primo film della serie, diretto da Keenen Ivory Wayans, appunto recitano i fratelli Shawn e Marlon che interpretano, rispettivamente, Ray e Shorty.

Tra l’altro, Shawn e Marlon Wayans hanno pure scritto la sceneggiatura. Comunque. Scary Movie è interessante, non tanto per aver rivitalizzato il filone delle parodie; semmai lo è a causa del ribaltamento, anche se a scopo comico, di una serie di tropi e cliché.


In quel periodo, infatti, il pubblico, come dire... cominciava a mangiare la foglia, ecco. Cioè, ad accorgersi di determinate cose. Di determinate storture. Nello specifico, tranne poche e sporadiche eccezioni, i personaggi di colore, quando e se presenti, erano tutto tranne che plausibili.

Tradotto ulteriormente, significa che a quel punto un fatto era diventato noto a tutti: se in un film horror c’è un tizio di colore, allora quello è il primo a morire. Personaggi-macchietta appena sufficientemente credibili, di cui bisognava sbarazzarsi al più presto. Perché?

Perché a scrivere quei personaggi c’erano uomini bianchi di mezz’età dell’upper middle class americana, la cui comprensione della figura-tipo di un giovane afroamericano si limitava giusto a un mucchietto di orribili luoghi comuni.

Capito adesso qual è il punto? 


Prey è proprio questo: un film di alieni che ammazzano per sport, infarcito a forza di messaggi femministi che puzzano di disperazione a mille metri di distanza; ché scritti da qualcuno la cui comprensione di certi concetti, si limita a un mucchietto di orribili luoghi comuni.

Sia chiaro, uno vuole pure concedere il beneficio del dubbio. Volendo, molto volendo, credere che tutto sia frutto di buone intenzioni; ma è difficile farlo, quand’è palese il fatto che non c’è stato manco il tentativo, almeno, di andare oltre le solite, prevedibili, tristissime ovvietà.

Sostanzialmente, Prey, esattamente come Predator 2, Predators e The Predator, ricicla gli stessi identici settings e gli stessi identici assets del film originale. L’unica, “grandissima”, differenza sta nel fatto che Prey è ambientato nel XVIII° secolo. Più o meno nei primi anni del ‘700.

Diciamo che visti alcuni collegamenti coi film precedenti, in special modo Predator 2, Prey dovrebbe porsi come un prequel, sorta di origin story in cui vediamo, forse, il primo Predator arrivato sulla Terra. Sfortunatamente, il film non ha il coraggio di seguire questa linea.


Anzi, in realtà, al di là di una storia estremamente lineare, la trama non ha costruzione; è solo un’estenuante esposizione con uno sviluppo verticale a impatto zero ultra-lineare. Esattamente come ogni altro film post-Predator ‘87, si limita giusto a cambiare scenario.

Si presuppone, su carta almeno, che trattandosi non del secondo, non del terzo, ma del quinto seguito di un franchise, quel minimo sforzo per approfondirne il background, la mitologia, sarebbe giusto giusto apprezzabile. 

Dovrebbe, quanto meno, provare a spiegare, tentare di esplorare i come e i perché di certe cose. Sicuro, con quattro film alle spalle, quello che Prey proprio non dovrebbe fare è ricostruire la stessa identica trama già vista in tutti gli atri episodi precedenti.

Al contrario, in Prey tutto è ridotto al solo e unico dovere precipuo di assecondare una distorta, quanto orribile e ormai superata idea di empowerment femminile. Quindi, tutto ruota su Naru (Amber Midthunder), giovane donna del fiero popolo Comanche


A differenza delle altre donne della sua tribù, però, Naru non vuole fare la guaritrice, tanto meno mettersi a zappettare la terra o qualsiasi altro ruolo, “chiaramente imposto”, da una società fallocentrica e dal vile patriarcato. No, lei vuole fare la guerriera.

Nonostante all’interno della tribù nessuno deprechi quei ruoli, comunque importanti per il sostentamento collettivo, nonostante le sue abilità come guaritrice siano, non solo riconosciute ma pure largamente apprezzate, Naru vuole fare la guerriera. Motivo? Vattelapesca.

Diciamo che un motivo c’è e viene pure spiegato, tramite una profonda linea di dialogo, scambio di battute in un toccante momento di raccoglimento e confronto madre-figlia: “Figlia mia, perché vuoi fare la guerriera?”, “Perché tutti dite che non posso!”.

Se avesse concluso la battuta buttandoci pure uno “Gne! Gne!” sarebbe stato veramente perfetto. Ora, i grandi problemi di Prey sono proprio questi. Cioè, in primis, insinuare il concetto che solo Naru, solo una donna in tutta la tribù è abbastanza coraggiosa da voler essere una guerriera.


Di conseguenza, questo si traduce ulteriormente col sottinteso che a parte lei, tutte le altre donne so’ ‘na mandria di mezze sceme senza importanza. In secondo luogo, Naru viene inquadrata in un certo tipo d’installazione, tipo avvento. Come se “il meglio dovesse ancora arrivare”

Vediamo di capirci: la cosa divertente dei vecchi film di guerra, specialmente quelli riguardo la Seconda guerra mondiale, sta nel fatto che puoi metterti lì e imparare tutti i luoghi comuni che aiutano una certa tipologia di sceneggiatori a dare al pubblico ciò che sono abituati a pensare.

Appunto, siamo nel 2022 e film come Prey continuano a marciare comodamente sull’idea latente “dell’ispirazione futura”, continuano a insistere e persistere nell’inquadrare le donne di successo come “anomalie” da prendere a modello per il futuro, anziché come persone capaci a pieno titolo.

Naru e la sua crescita dovrebbero essere, a ‘sto punto, il fulcro di Prey. Invece, non ha nulla che assomigli manco da lontano a una vera personalità. Figuriamoci avere uno sviluppo. Il personaggio è in toto una brutta commistione di cliché prevedibili e ultra-abusati.


A cui si aggiunge la terrificante logica del “Io sarò”, “Io diventerò”, “Io vi farò vedere” e bla bla bla appresso, frutto di una visione estremamente limitata scritta da qualcuno che, evidentemente, non riesce manco a rendersi conto che a fare così, quel futuro non arriverà mai. 

Aspetta, però, ché mica finisce qua, eh. Prey è ambientato ai tempi in cui i nativi americani potevano ancora andarsene in giro per le Grandi Pianure, cioè tutta quella parte del Nord America che adesso comprende Stati Uniti e Canada, prima che diventassero nazioni.

Siccome Patrick Aison, lo sceneggiatore di Prey, ha fatto un così buon lavoro nel rappresentare una giovane donna, dimostrando di avere chiarissime le idee che concernono femminismo, emancipazione e parità, poteva mai sprecare l’occasione per esplorare la cultura dei nativi?

Quanto sarebbe stato bello se, magari, avesse approfondito gli aspetti culturali dei Comanche nello specifico e dei nativi americani in genere? Per esempio, utilizzando il Predator come giustapposizione per esplorare i loro miti e il loro folklore, tanto per dirne una.


Per loro, magari, lo Yautja, cioè il Predator, sarebbe potuto essere uno Skin-walker oppure un Wendigo oppure ancora vattelapesca. Una qualunque cosa, insomma, con cui, poi, si poteva entrare nello specifico per esplorare diversi aspetti socio-culturali. Invece…

Tralasciando l’assoluta anonimia di quattro personaggi senza nessuna, assolutamente nessuna personalità, Aison anche qui sceglie di andare per il sottile, utilizzando gli stessi vecchi e orrendi stereotipi che inquadrano genericamente i nativi.

Soprattutto, una delle cose peggiori in assoluto con cui poteva uscirsene, sta nel descrivere i nativi americani di quell'epoca incapaci di avere un dialogo complesso in grado di andare oltre i monosillabi. Vedi l’esempio di Naru che parla con la madre più su.

Naturalmente, questo tranne quando la trama deve avanzare a convenienza e perciò, a Naru, all’improvviso, si scioglie la lingua. Proprio come a convenienza, Dan Trachtenberg, il regista, all’improvviso ricorda che Prey è un film con un alieno omicida che ammazza per sport.


Prey ha un running time di circa novanta minuti. Su questi novanta, cinquanta, ben cinquanta minuti, se ne vanno nella noia più totale. Un primo atto dilatato oltre i limiti imposti dal buon senso, non per scelta; piuttosto perché il film non ha assolutamente nulla da dire.

Nulla, se non mostrare un'orrenda serie di animali in cgi e sottolineare la mancanza di sviluppo di Naru che ogni volta tenta di mettersi alla prova, impila figure di melma una dietro l’altra. Cosa resa ancora peggiore da una serie di “scelte registiche” non proprio brillantissime.

In sostanza, tutte quelle panoramiche e campi lunghi senza che accada nulla di specifico se non Naru che… insomma, fa cose, rendono il film molto simile a una pubblicità per la promozione del turismo. Salvo, poi, accelerare di botto nel terzo atto. 

Perché, metti, a un certo punto è chiaro che Naru non conquisterà gli uomini con la forza. No, quando mai... lei è una donna e come tutti sappiamo, le donne sono più intelligenti degli uomini. Perciò, Naru supererà tutti in astuzia e abilità. Pure il Predator. 


Perché, giustamente, l'idea è che pure il Predator è un maschio. Un maschio che in qualche modo, viene lasciato intendere, ritenga che una qualsiasi donna umana sia tutto tranne che una minaccia. Poi, di punto in bianco, senza nessun motivo apparente, la "non minaccia" ti piglia a cazzotti e calci in culo. Alé.

Una cosa del genere, poteva venire in mente solo a qualcuno la cui idea di femminismo si ferma giusto a metà fra Malibu Stacy e Jenna Jameson. Facile, a 'sto punto, capire perché Disney/Fox abbia deciso di rilasciare Prey direttamente in streaming, glissando i cinema.


Ebbene, detto questo anche per oggi è tutto.

Stay Tuned ma soprattutto Stay Retro. 


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