Thunderbolts* - *The Eurospin's Avengers


Conosco una storiella su Gesù Cristo, fermami se l’hai già sentita. Gesù Cristo entra in una locanda, consegna tre chiodi all’oste e chiede: "Puoi sistemarmi per la notte?". Divertente? Forse. Dipende se hai già smesso di crederci o no. Cosa che riassume perfettamente Suicide Squa... The Suicide Sq... Thunderbolts: un film figlio di un’idea morente, che sopravvive per inerzia in un mondo che non le riconosce più alcun significato, che finisce per inchiodarsi da solo alla croce delle proprie scelte sbagliate. 

In altre parole, non frega più un cazzo di niente a nessuno; e perché dovrebbe, poi? Un film che ha per protagonisti un mucchietto di personaggi di serie B che la maggior parte delle persone ricorda a malapena, pescati da film e serie tv che molti manco hanno visto. Thunderbolts è l'ennesimo tassello di un’epoca che non esiste più: costruito da autori che imitano una formula in cui non credono, per spettatori che fingono di aspettarsi ancora qualcosa. Capiamoci un attimo meglio, però: chi sono i Thunderbolts? 

Creati da Kurt Busiek e Mark Bagley nel 1997, i Thunderbolts sono un gruppo di supercriminali - messi insieme e guidati dal Barone Zemo, sotto l’identità di Citizen V - che si finge una nuova squadra di supereroi per guadagnarsi il favore dell’opinione pubblica; solo che a un certo punto alcuni di loro iniziano veramente a voler redimersi. Diciamo che questa, per l'epoca, era molto avanti come idea.

Metti poi il tono moralmente ambiguo delle storie, metti la redenzione, vera o presunta che sia, come tema centrale ed ecco il perché i Thunderbolts ebbero subito un certo successo. I Thunderbolts del film, invece, non hanno nulla da spartire né con la loro controparte fumettistica né con l’idea originale. Tanto meno col concetto di “supercriminali in cerca di redenzione”. Si tratta semplicemente di spalle apparse randomicamente nel MCU, definiti unicamente dal fatto di essere la versione sfighé di personaggi più famosi.

A proposito di cose a caso, tra l'altro, Thunderbolts è fuori da circa una settimana e quasi sicuramente, a più o meno tutti, sarà capitato di leggere certe cose che nell’arco di questo tempo hanno fatto in tempo a farsi il giro dell’internet. Tipo che Thunderbolts è “una bellissima analisi del potere dell'unità di fronte alla salute mentale”. Oppure “che mostra eroi imperfetti affrontare i loro momenti più bui, trattando il tema del fallimento in modo adeguato”. Oppure, ancora, “un film che tratta la depressione e la salute mentale in modo serio” e così via. Già...

Al di là delle reazioni, naturalmente entusiaste, condivise subito dai media invitati alle anteprime riguardo questa magistrale e intellettualmente coinvolgente interpretazione della salute mentale, se questo è un modo tutt’altro che superficiale di trattare temi come la depressione e appunto la salute mentale, allora Scuola di polizia è un documentario sull’addestramento delle forze dell’ordine. Sia chiaro, nessuno si aspetta e nessuno vuole Ken Kesey o Virginia Wolf da un film di supereroi. Anzi.

Appunto per questo, bisognerebbe moderare giusto un pochino i toni e dare il giusto peso alle parole. Il fatto che in Thunderbolts, una volta tanto, abbiano provato a dare un minimo di spessore ai personaggi e approcciarsi a una tematica un pochino più seria del solito è apprezzabile? Assolutamente sì. Dipingerlo quasi come se fosse Melancholia, no. Perché qui nessuno ha un ruolo o un conflitto vero e proprio e il livello d'impegno equivale a quello di un sudoku già risolto.

I personaggi hanno solo un incastro predefinito nella grande catena di montaggio Marvel: cioè sono lì perché già apparsi da qualche altra parte, punto. Frega zero poi se ricordi o no dove. Anche perché, alla fine della fiera, il gioco è tutto lì, no? Devi fare l'abbonamento a Disney+. Sì, d'accordo, ma parliamoci chiaro: chi ha davvero la voglia — o la forza — di farsi prima un’intera lista di recupero e guardare film e serie tv vecchie di sei, sette, otto anni, solo per andare al cinema e dare un senso a un film che manco ci prova?

La cosa buffa, del resto, sta nel fatto che un paio di giorni fa pure Kevin Feige ha finalmente ammesso il problema: il sovraccarico di contenuti e l'eccessiva interconnessione tra film e serie tv ha portato all'allontanamento del pubblico perché reso difficile per gli spettatori seguire i contenuti Marvel, creando una sensazione di obbligo piuttosto che di intrattenimento. Un po' come dover fare "i compiti a casa". Adesso lascia stare che questa è la stessa paraculata che Bob Iger ripete da quasi tre anni; ma almeno adesso stanno cantando in coro ed è comunque già qualcosa.

Il punto di tutta questa situazione sta nel fatto che piaccia o no, Disney/Marvel ha caratterizzato il cinema degli anni '10 e definito un'intera epoca con i cinecomics. Zeitgeist, il famoso spirito del tempo, significa proprio questo: la tendenza culturale predominante in una determinata epoca; e quello spirito, oggi, è passato. Quella stagione del cinema - iperprodotta, spettacolare, costruita attorno a franchise e universi condivisi - ha lasciato il segno, ma il suo momento è finito. Non è una tragedia, ma semplicemente il corso naturale delle cose.





Ormai è impossibile, pure per il più accanito dei FanZ della prima ora, negare che ogni film Marvel uscito dopo Endgame non è più cinema d’intrattenimento — è autopsia. Ogni nuova uscita è un monologo del MCU su se stesso. Un circo autoreferenziale che gira a vuoto nel proprio vuoto come un tossico che parla da solo davanti allo specchio e in un loop nevrotico continua a rimbalzare sempre sulla stessa domanda: “Come cazzo faccio a rifare il 2019?”. Ormai il MCU non racconta più storie, fa inventario.

Ostinarsi a voler ignorare questo fatto non è più triste, ma comincia a essere francamente imbarazzante; tanto quanto un cinquantenne coi capelli tinti che usa ancora la parola "boomer" e fa la dab su TikTok perché, sai, i giovani fanno così. Thunderbolts non è manco il frutto di una visione artistica nata per esigenza, ma una roba messa insieme nel tentativo di tirare avanti ancora un altro anno. C'è qualcosa di profondamente cinico, e allo stesso tempo patetico, in tutto questo: l'illusione che basti rimettere insieme i pezzi per far sembrare intero un universo che ha già cominciato a collassare da tempo su se stesso.



Ed è qui che viene fuori il nodo più grosso: usare lo stesso approccio e dare a ogni film lo stesso tono al duplice scopo di appiccicarci sopra un bel PG-13 e vendere zainetti, portapastelli e pupazzetti, era una strategia funzionale sul breve periodo; ma pure a un cieco da lontanissimo avrebbe dovuto essere chiaro che sulla lunga distanza fosse l'equivalente di una pistola puntata alla tempia. In altre parole, fin quando storie e personaggi si mantengono uguali e tutti sullo stesso stile e atteggiamento, tutto a posto.

Tradotto ulteriormente, significa che puoi tranquillamente prendere il Pirla del Tuono, i Guardiani della Gag, Capitan Fetecchia, Gag-Man e metterli tutti insieme per fare un film. Nel momento in cui, però, ti discosti da questo tono e cominci a torcere un po' le cose, ti accorgi di quanto questo equilibrio sia più fragile di un foglio di carta bagnato e non possa in alcun modo reggere qualsiasi cosa che si allontani, anche solo un po', da quanto stabilito. 


Appunto, Thunderbolts ha tono e ritmi schizofrenici. Vuole essere serio, poi ironico, poi di nuovo tragico, poi scemo… come se ogni dieci minuti arrivasse una mail diversa da Kevin Feige con istruzioni contraddittorie. Per questo, poi, senza una linea di condotta si finisce direttamente ad andare a braccia col plot convenience: cioè quando gli eventi accadono non perché siano motivati logicamente o narrativamente, ma semplicemente perché devono accadere per far avanzare la storia. 

Thunderbolts è solo l'ennesimo film in cui tutto è regolato da questa logica molle e incoerente. Una scorciatoia pigra che sostituisce la costruzione coerente con soluzioni facili, forzate o del tutto arbitrarie. Il risultato è che non esistono tensione, posta in gioco, o senso del pericolo. Perché tutto può essere ribaltato in un attimo con un colpo di fortuna, un potere improvvisato o una battuta che fa finta di essere autoconsapevole. Così, invece di una storia, ti ritrovi davanti a una serie di eventi che succedono perché sì. 

Non è più sceneggiatura, ma una serie di appunti scritti col pennarellone. Una trama che avanza per riflesso condizionato, come un pollo decapitato che continua a correre in cerchio. In questo senso, una squadra, per funzionare davvero, ha bisogno di un cuore condiviso. Di un minimo comune denominatore emotivo, di conflitti che s'intrecciano, di dinamiche che si sviluppano nel tempo. Qui non c’è nulla di tutto ciò. 

Addirittura Sentry - uno dei personaggi meno probabili mai apparsi e ficcato letteralmente a martellate nell'universo Marvel - è stato trattato in modo ancor più pedestre perdendo quel po' di senso che erano riusciti a dargli a botta di retcon. Aperta e chiusa parentesi: per chi non lo sapesse, Sentry, a parte essere concettualmente una sua ennesima variante, equivale grossomodo al Superman della Silver Age; cioè il Superman che trascinava i pianeti con le catene, viaggiava nel tempo volando più veloce della luce, distruggeva galassie col super-soffio e via dicendo.

Questo accadeva perché le storie erano episodiche, surreali e con pochi limiti logici. Verso la fine degli anni '50 e per buona parte dei '60 del XX° secolo, non c’erano ancora idee consolidate di “power scaling” o coerenza interna semplicemente per via del fatto che i fumetti erano indirizzati per lo più a un pubblico infantile e il sense of wonder era tutto e portato agli estremi. Quindi un personaggio come Sentry è troppo, troppo potente per un mondo fatto di "supereroi con superproblemi". 

Sentry, come per esempio Superman Prime o il Dottor Manhattan, è uno di quei personaggi talmente fuori scala da sovrapporsi alla figura stessa dell'autore: può fare qualunque cosa e l'unico limite è la fantasia dell'autore stesso. Per dirla in un altro modo, allo stato attuale delle cose, il 99% dei personaggi Marvel al massimo gli possono fare uno shampoo alla scroto. Nei fumetti viene usato poco e solo quando attorno c'è una costruzione adatta a giustificare la sua presenza. Altrimenti si fa finta di niente.


Già i film Marvel hanno un grosso problema di coerenza, figuriamoci vedere Sentry buttato così in un film del genere. Mettergli contro i Thunderbolts è come mettere i Batman e Robin degli anni '60 contro Saitama di One Punch Man. Infatti, come vengono a capo della situazione? Esattamente come Sam Wilson ha messo a cuccia l'Hulk Rosso in Captain America: Fake New World. E con questo siamo a due film che risolvono le cose in questo modo. Pure negli Orsetti del Cuore c'era più tensione narrativa. Santo. Cielo. Comunque.

Questo è il problema: confondere un collage di comparse con una narrazione corale. Non è che puoi mettere sei persone nella stessa stanza e fargli ripetere in continuazione quanto stanno male e quanto sono tristi per avere una squadra emotivamente unita. Altrimenti, così, pure un gruppo di cristiani che si lamenta nella saletta d’attesa del dentista è un super-gruppo su cui puoi farci il film. I Thunderbolts, quelli veri, nascono con un'idea fortissima: la redenzione.

Supercriminali che si fingono eroi per opportunismo, ma che - in qualche caso - finiscono per crederci davvero. Una parabola incerta, mai moraleggiante, che metteva in discussione l’identità e la fiducia. “Possiamo cambiare?” soprattutto “Chi decide se siamo cambiati davvero?”. E questo non è Tolstoj ma 'na roba indirizzata a un pubblico di ragazzini. L’idea della redenzione, invece, nel film è ridotta a un semplice pretesto estetico. Anzi. Non c’è nemmeno una vera motivazione per cui dovrebbero essere lì insieme, figuriamoci un motivo per cui dovremmo empatizzare con loro.

Thunderbolts è un film decisamente migliore della gran parte dei cinecomics Disney/Marvel usciti in questi ultimi anni, ma rimane il prodotto terminale di un’industria che continua a fingere di crederci, anche quando ormai il trucco è chiaro a tutti. Quindi figuriamoci qual è il livello raggiunto da questi blockbuster. Un film che non racconta una storia, ma esegue un protocollo. Un algoritmo in calo travestito da blockbuster.

Alla fine resta solo una domanda: a chi importa più davvero di tutto questo? Questo è il suono stanco di una macchina che tossisce fumo mentre si spegne, chiedendosi come mai senza nemmeno la dignità di ammettere che il carburante è finito.


Ebbene detto questo anche per oggi è tutto.

Stay Tuned ma soprattutto Stay Retro.



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