DOOM - Poi l'hai avuto quel cromosoma in più?



Prendi Dwayne "The Rock" Johnson e mettilo assieme a Karl "Butcher" Urban, ok? Dopodiché, prendi Doom: il gioco più violento, sanguinoso e frenetico, icona indiscussa degli anni novanta e schiaffaceli tutt'e due dentro. Testo-macho-sterone armato a pistoloni contro le orde dell’inferno. Nello spazio. Yeah! Con una roba del genere cosa potrebbe andare storto? Cioè, a parte tutto?

Così come non puoi spiegare i colori a un cieco, non puoi spiegare certe cose. Sì, ci puoi anche provare, ovviamente. Certe cose, però, per quanto bene uno le possa spiegare, devono necessariamente essere vissute per essere capite. Tipo, tanto per dire, la soddisfazione che dava il rumore dello scatto quando tiravi la copertura metallica a molla dei floppy disk, no?

Oppure, legarsi una cipolla alla cintura, com'era di moda a quei tempi, e prendere il traghetto fino all’edicola per comprare le riviste dedicate ai videogiochi. Figurati, la preistoria analogica, proprio. Vivere in un’epoca in cui ogni anno, puntuale come la morte, esce il nuovo Call of Duty 2142 – Vietnam Black Ops Combat Warfare, un gioco come Doom non fa tutta 'sta gran differenza.


Tuttavia, nel 1993 le cose erano giusto poco poco diverse; non c’era assolutamente niente come Doom. Rivoluzionario sotto molti aspetti, dalla grafica immersiva al sound design fino alla rappresentazione della violenza. Il gameplay era semplice e velocissimo, in grado di enfatizzare al massimo la tensione e creare un senso d’urgenza nel giocatore. Anzi.

Già che ci siamo, tanto vale specificare pure un’altra cosa, va.

Per anni, prima che si cominciasse a chiamarli first-person shooter e a identificarli come appartenenti a un genere vero e proprio, qualunque gioco presentasse le stesse meccaniche, veniva automaticamente indicato come “Doom clone”. Cioè, un gioco “alla Doom”. Giocato da circa venti milioni di persone, dati alla mano, non è difficile capire il perché Doom divenne una vera e propria icona della cultura pop.

“Ma tu… tu sarai peggio. Falli a pezzi, finché non sarà finita!”


Spesso la chiave del successo è la semplicità. Come semplicità non fa rima con idiozia, così complicazione non fa rima con intelligenza. Doom non ha un vero e proprio storytelling, la trama si basa su una semplice backstory.

Il protagonista è un generico marine ultra-cazzuto, assegnato alla Union Aerospace Corporation di Marte. L’Uac è un conglomerato multi-planetario impegnato in vari progetti top secret, portati avanti nei laboratori costruiti su Marte e le sue due lune, Fobos e Deimos.

La ricerca principale riguarda i viaggi spaziali interdimensionali e, più o meno, tutto andava secondo i piani. Almeno fino a quando il gateway che collegava Fobos e Deimos è diventato instabile. Così, il satellite naturale Deimos viene teletrasportato letteralmente all’inferno. Qui, tramite il gateway rimasto aperto, i demoni infernali si riversano a frotte pure su Fobos e a questo punto comincia la mattanza.

Obiettivo del giocatore: spaccare culi a nastro, in una pioggia di sangue come se non ci fosse un domani. Bello, facile, intrigante, veloce e appagante. La quintessenza di ogni singolo elemento in grado di esaltare il tipico maschio adolescente cresciuto a cavallo degli anni ottanta che non volevano morire e gli anni novanta che cercavano disperatamente una propria identità.

Tutto era contestualizzato per supportare tutto. Zero complicazioni. Zero problemi.

A questo punto tirarci fuori un film non era più una questione di come, ma solo di quando. Del resto, come puoi sbagliare con una roba del genere? Ti ci devi mettere d’impegno, proprio. Giusto?

Doom film inizia spiegandoci che, nel 2026 circa, nel deserto del Nevada venne ritrovato un portale per un’antica città su Marte. Il portale, venne successivamente ribattezzato Arca, giusto perché chiamarlo Stargate pareva brutto.

Passano vent’anni e siamo nel 2046. Nel frattempo su Marte è stata allestita la struttura di Olduvai, per condurre ulteriori studi sull’Arca e i suoi annessi e connessi. Segue ovvia cagnara d’ordinanza, con il fuggi fuggi generale degli scienziati fatti a pezzi da qualcosa.

Il Dr. Carmack (Robert Russell) capo della struttura, riesce a mettersi in salvo e avvisare la base sulla Terra che è in corso una Violazione di Livello 5. Perciò viene immediatamente contattata la Rapid Response Tactical Squad, super-squadrone di super-marines guidato da Sarge (The Rock). Il suo secondo è Reaper (Karl Urban) e poi vengono tutti gli “altri”.

Dove per altri si intendeno le classiche svogliatissime sagome di cartone messe lì per fare numero e allungare il brodo. Arrivati sulla base dell’Uac su Marte, i marines si incontrano con la dottoressa Samantha Grimm (Rosamund Pike). Scienziata i cui studi in loco di antropologia avanzata (?) hanno portato a scoperte “stupefacenti”.

Breve parentesi: Samantha Grimm è in realtà la sorella di Reaper, il personaggio interpretato da Karl Urban. Il cui vero nome si scoprirà in seguito essere John Grimm. Aspetta, Grimm… Reaper… suona proprio come Grim Reaper! Cioè, il Tristo Mietitore. Applausi alla finezza.

Ora, passi il gioco di parole che deve aver sicuramente fatto sentire un genio chiunque l’abbia pensato. Il quale gioco di parole viene anche sottolineato durante il film, ché se no gli spettatori mica ci arrivavano, eh. Si spera sia solo una coincidenza che John e Samantha si chiamino Grimm. “Fratelli Grimm”.

A ogni modo, Samantha ha ricostruito uno scheletro completo di una donna marziana soprannominata “Lucy”, rannicchiata nell’atto di proteggere suo figlio. E spiega, in un dialogo con suo fratello, che gli antichi marziani erano una sorta di super umani. Tramite la bioingegneria sono stati in grado di aggiungere un ventiquattresimo cromosoma al loro stesso Dna.

Questa è la grande svolta della trama: noi esseri umani ne abbiamo “solo” ventitré. Nella logica del film, invece, questo cromosoma in più ha reso i marziani super forti, super intelligenti, super veloci e via dicendo. Tuttavia molti di loro, a quanto pare, si sono trasformati in mostri.

Quindi, gli altri hanno costruito il portale trovato poi sulla Terra e, presumibilmente, sono diventati… beh, sì… noi, insomma. Lasciandosi dietro il cromosoma in più, naturalmente.

Attenzione, il bello arriva adesso: grazie alla dottoressa Grimm, gli scienziati di Olduvai sono riusciti a sintetizzare il siero in grado di donare il cromosoma extra. Solo che questo trasforma, a seconda, gli umani in mostri o in super umani come conseguenza al loro essere buoni o cattivi.

Sempre a detta della dottoressa Grimm, il dieci percento del genoma umano non è ancora stato mappato. Accenna al fatto che qualcuno ritenga che questa percentuale sconosciuta possa essere ciò che definiamo “anima”. Sarebbe quindi questa l’incognita che impedisce di determinare le inclinazioni umane; è questo che non ci permette di sapere chi diventerà un mostro o un superman.

Non c’è bisogno neanche di fare battute su questa faccenda del cromosoma in più. Perché sarebbe come andare a pesca in un barile. Con la dinamite. La domanda, però, sorge spontanea: com’è possibile prendere una cosa tanto semplice come Doom e riuscire a renderla così eccezionalmente scema?

A parte il fatto che la “dottoressa” se l’è chiaramente comprata la laurea, siccome nel 2046 non sa che la mappatura del genoma umano è avvenuta nel 2003, grazie al The Human Genome Project. Piuttosto, il doloroso tentativo di fondere terminologia scientifica e linguaggio filosofico è 'na tranvata in fronte.

Insomma, è solo un cumulo di ridicole cazzate. Pure noiose, per giunta. Con i personaggi che, fino alla nausea, spiegano e rispiegano tutto per filo e per segno, con più autorevolezza e serietà del necessario. Insomma, una roba tanto così sopra le righe. In compenso le cose poi peggiorano, eh.

Il fatto divertente in tutto questo è come David Callaham e Wesley Strick, nello scrivere soggetto e sceneggiatura del film di Doom, siano riusciti ad andare quanto più lontano possibile si possa immaginare da tutti gli elementi che hanno reso Doom quel che è.

Dovremmo essere su Marte a fare il culo ai mostri, in una frenetica orgia di sangue e violenza. Un soggetto simile, da solo, ti dà praticamente carta bianca all’immaginazione. In questo senso, sicuramente gli interni della stazione di ricerca su Marte sono affascinanti e ben fatti.

Tuttavia, il film ti inchioda là dentro, senza mai uscire da lì. In pratica, Doom film è un po’ come andare in vacanza ai Caraibi e restare tutto il tempo chiuso nella stanza d’albergo. A fissare un poster con le splendide spiagge dei Caraibi.

Tutto si riduce ai marines, sistematicamente uccisi uno a uno tra uno spiegone e l’altro. Una, due, tre volte magari, è bello vedere i personaggi che si muovono con circospezione nei corridoi bui. Ma alla quarta, quinta, sesta, settima volta, per quasi due ore di film, vedere sempre la stessa cosa inizia un pochino a stancare.

Eccezione che conferma la regola è la sequenza finale in POV che ricalca le dinamiche del gioco. Vero che ci vogliono più di settanta minuti per arrivarci. Comunque per l’epoca, in cui non ti potevi semplicemente schiaffare una GoPro in fronte, è una sequenza impressionante. Di grande impatto, molto accattivante e ben realizzata.

Quei cinque minuti in soggettiva sono opera della collaborazione tra il supervisore degli effetti visivi Jon Farhat e il leggendario Stan Winston. Set, scenografie, effetti prostetici, cgi, l’estetica in generale è magnifica e di altissimo livello. Molto al di sopra della media di quegli anni.

Naturalmente era impossibile fare una cosa del genere in piano sequenza. Perciò, per dare l’impressione di vedere l’azione dal punto di vista del personaggio è stata usata una tecnica a metà fra whip pan e stop-motion. Per fare tutto ci sono voluti tre mesi di pianificazione e due settimane di riprese effettive.

Naturalmente Doom film non avrebbero mai potuto realizzarlo per intero così. Non si sarebbe visto manco l’orizzonte del vasto oceano di danari che ci sarebbero voluti. Però, se solo avessero riversato nel film lo stesso impegno, estro creativo e fantasia che hanno impiegato per realizzare quei cinque minuti di sequenza, Doom sarebbe potuto essere un film eccezionale.

Magari non sarà il massimo come analogia, ma vediamo di capirci: per quanto possa essere discutibile, la pornografia è puro e semplice intrattenimento. Diretto e finalizzato a un unico scopo, a cui arriva senza deviazioni. Non c’è assolutamente nulla di complicato.

Immaginiamo un classico film pornozozzografico in cui una buona mezz’ora se ne va solo per spiegarmi le origini dell’idraulico. Poi, anziché riparare il “tubo che perde” della signora, attacca una pippa epocale sulla provenienza del preservativo. Cos’è, com’è fatto, come si indossa e via dicendo.

Dopodiché, arrivati al momento clou, i personaggi descrivono per filo e per segno ogni singola “posizione” che stanno mettendo in pratica. E con lo stesso tono di Alberto Angela che illustra la caduta di Cartagine. Ha senso questa cosa? No.

Doom film, è praticamente questo: un soggetto accattivante e bello in virtù della sua semplicità, sepolto sotto una valanga di cose prive di senso.


Ebbene, detto questo credo sia tutto.

Stay Tuned, ma soprattutto Stay Retro.


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