Resident Evil: Welcome to Raccoon City per cosplayer

 



Resident Evil: Welcome to Raccoon City è l’ulteriore prova, semmai ce ne fosse ancora bisogno, del fatto che cinema e videogames non riescono ad andare d’accordo. Ulteriore prova, semmai ce ne fosse ancora bisogno, di quanto sia profondamente sbagliata una certa mentalità. Capiamoci: Resident Evil è un franchise vecchio di quasi trent’anni, ormai. 

Dal successo di quel primo gioco uscito su Playstation nel 1996, nell'arco di questo tempo c'hanno tirato fuori letteralmente di tutto: romanzi, fumetti, serie televisive. Merchandising di ogni tipo, forma, misura e colore. Addirittura produzioni teatrali e ristoranti tematici. Chiaramente, a fronte di una simile produzione di roba a marchio registrato, diciamo che non tutte le ciambelle possono riuscire col buco, insomma. 

Ora, in tutto questo il mio Paul W.S. Anderson non è un regista scadente! Sarà pure un cagnaccio, un populista, un regista scadente, ma vi assicuro che non è una pornostar! Uno che si è sempre definito un "cineasta populista", qualunque cosa significhi, a cui interessa solo intrattenere il pubblico. A lui, Anderson, amico del popolo, non importa niente della critica; l’unica cosa che conta è far felici le genti tutte che accorrono a meravigliarsi dei portenti del cinematografo. 

Buffo, considerando il fatto che ad affermarlo è proprio uno i cui film vengono puntualmente, sistematicamente stroncati. Ce ne fosse uno che si salva; e appunto, la serie di film basata proprio su Resident Evil, con cui lui e la moglie Milla Jovovich hanno marciato a oltranza per quindici anni, non fa eccezione. Anzi. Eppure, nonostante questo, nonostante Paul W. S. Anderson sia la prova di quanto male possano andare le cose, Welcome to Raccoon City è in grado di farti rivalutare addirittura in positivo i suoi film.

Strano se ci pensi, meno se consideri le opzioni, i modi e l'ampissimo raggio di possibilità fra cui Johannes Roberts, regista e sceneggiatore di 'sto Resident Evil: Welcome to Raccoon City, avrebbe potuto scegliere. Infatti, fra le tante, cosa ha deciso di fare alla fine Roberts? Di fare schifo. La sceneggiatura, nel tentativo matto e disperato di appiccicare insieme le trame dei primi due giochi della saga, butta dentro tanti di quei personaggi e di svolte che alla fine niente ha spazio per svilupparsi.

Quasi mai, nei suoi 107 minuti d’esecuzione, Welcome to Raccon City dà l’impressione di essere una produzione, almeno vagamente, professionale. Al contrario, ci mette poco a urlarti fortissimo fanfiction nelle orecchie. Un live action fan-made messo su da un gruppo di cosplayer con troppo tempo libero e troppi soldi a disposizione, il cui unico interesse è mostrare ciò che piace a loro anziché raccontare, coerentemente, una storia nella sua interezza.

Il motivo è sostanzialmente uno ed è riducibile al fatto che cinema e videogames possono intersecarsi, sì, ma in modo univoco. In altre parole, non godono di una proprietà transitiva: le cose funzionano in una direzione, ma non nell’altra. Cioè, vediamo di capirci un attimo: nel gennaio del 1998 esce Resident Evil 2. Pure stavolta il successo è grande, tanto grande, per cui l’idea di tirarci fuori un film da questa roba non pare più un'ipotesi così astratta.

Allora, dicono, dobbiamo fare un film sugli zombie basato su 'sti giochi che parlano di zombie a loro volta ispirati ai film sugli zombie, ok? Perciò, George A. Romero, il "padre degli zombie", viene assunto come regista nonché sceneggiatore e nell’ottobre del 1998, consegna la sua sceneggiatura per il film. Sorpresa sorpresa: succede che lo script di Romero viene considerato scadente, scarsamente commerciale e quindi cestinato senza pietà.

Aperta e chiusa parentesi: a volerci buttare un occhio, la sceneggiatura completa scritta da Romero all'epoca è pubblica e si trova facilmente in rete. Però, metti che magari non tutti c'hanno 'sta grandissima voglia di mettersi là a sciropparsi centoventi pagine di sceneggiatura in inglese. Quindi, a voler stringere il brodo al massimo, sostanzialmente la storia segue quella del primo gioco. Più o meno.

In sostanza è tutto uguale, a parte alcune differenze limitate giusto a 'na manciata di personaggi originali ideati apposta per il film, alcuni dettagli riguardanti la S.T.A.R.S. e il background di Chris Redfield. Praticamente, nella storia scritta da Romero la S.T.A.R.S. è sempre una squadra di agenti speciali tipo S.W.A.T., impiegata in missioni ad alto rischio. Tuttavia, la differenza è che in questo caso si tratta di cellule dormienti infiltrate in città in attesa di ordini. 

Jill e Chris, poi, hanno da subito una relazione sentimentale che in realtà, lei usa come facciata di copertura, mentre lui non è un agente, ma un semplice allevatore di cavalli. Ora, a monte Jill Valentine e Chris Redfield, sono il corrispettivo delle diverse modalità con cui potevi affrontare il gioco. In altre parole, Jill corrisponde alla modalità easy, con cui è più facile iniziare la partita, invece Chris corrisponde alla modalità hard.

Quindi, a seconda della scelta ti trovi ad affrontare un percorso con una, mentre uno essenzialmente diverso con l’altro che vanno, poi, a combaciare su alcuni snodi principali della storia. Un modo piuttosto furbo, bisogna dire, di allungare quanto più possibile il brodo. Adesso, quasi trent'anni dopo, se all'atto pratico quanto scritto da Romero avesse funzionato o no, vallo a sapere. Le variabili sono troppe. Tuttavia, si nota chiaramente il fatto che Romero aveva già perfettamente centrato il punto.

Perché la questione è sempre quella: si tratta di riempire i vuoti. Nel senso, in un qualsiasi videogame, la trama, cioè l’ordine sequenziale con cui ti vengono mostrati i fatti che andranno poi a comporre la storia, non è attiva. Avanza solo nella misura delle azioni che tu, giocatore, sei chiamato a compiere nei panni di un alter ego virtuale. Media diversi significa linguaggi diversi, cosa che in un mondo perfetto dovrebbe essere inutile sottolineare. Sfortunatamente, non viviamo in un mondo perfetto.

Se uno è costretto a ripetere in continuazione sempre la stessa critica è perché, alla fine della fiera, si ritrova davanti in continuazione sempre la stessa mentalità. Quando si tratta di adattamenti, l’approccio tipico rimane sempre quello: prendere parti di un mezzo e appiccicarle in scala 1:1 su di un altro completamente diverso, sperando che in qualche modo funzioni. Esattamente quello che ha fatto Johannes Roberts con Welcome to Raccoon City.

A fare così, per una questione di statistica, qualcosa di buono avrebbe potuto pure venirne fuori, sì; se non fosse per quel piccolissimo dettaglio che assolutamente nulla in questo film ha un particolare senso. Che le scenografie riprendano al dettaglio i fondali del gioco o magari che per ogni testo sia stato usato lo stesso font Cambria dei giochi, frega meno di mezzo membro di cane morto se poi tutto il resto non funziona.

Per dire, le intro di Resident Evil 1 e 2, messe insieme, se arrivano a sei-sette minuti è pure tanto. Eppure, riescono benissimo a farti capire quando, come e cosa sta succedendo. In Resident Evil: Welcome to Raccoon City, invece, ci vogliono oltre quarantacinque minuti. Oltre quarantacinque noiosissimi minuti - su poco più un’oretta e mezza di film - di lenta, agonizzante esposizione solo per appiccicare l’una sull’altra queste quattro cazzatelle e darti un antefatto.

Oppure, sempre per dire, l’apparizione del primo zombie nel gioco originale è Il simbolo per antonomasia della saga. Quei pochi secondi di filmato FMV, ancora oggi hanno una carica, una presa immaginifica fortissima. Sì, metti che vederla fatta paro paro in un film è pure bello, sicuramente. Però sai com’è, no? Nel gioco, quella era una rivelazione drammatica che serviva, oltre all'effetto sorpresa, a impostare subito tono, atmosfera e modalità del gioco.

Nel momento in cui nel film la piazzi praticamente alla fine del secondo atto, dopo che "i personaggi di Resident Evil 2" si sono messi a combattere gli zombie già da un quarto d’ora, quella scena non è più tanto forte e manco tanto sensata, a dire il vero. Così come non ha tanto senso il fatto che storia e personaggi siano del tutto spanati. Cioè, c'è voluta quasi un’ora solo per spiegare che a Raccoon City sta prendendo piede un’infezione, ok? 

Tutti, da settimane, stanno perdendo i capelli a ciocche, vomitando bile, addirittura lacrimando sangue e nessuno se n’è accorto? Nessuno ne parla, nessuno fa qualcosa? Forse perché Chris, Jill o qualsiasi altro membro dell’efficientissimo corpo di polizia, per motivi poco plausibili spiegati in appena due secondi, sembra non essere stato infettato? Non ha senso. Così come non ha senso andare di botto "a indagare" in una villa sperduta in mezzo ai boschi anziché preoccuparsi di un possibile disastro biologico.

Dove Roberts volesse andare a parare è chiaro: il tentativo di rifarsi al Carpenter di film come The Fog e Assault on Precinct 13, costruiti sul modello “assedio” con i buoni dentro e i cattivi fuori, da un certo punto di vista è pure comprensibile nonché condivisibile. Sì, a saperlo fare, però. Tra volere e potere ci passa in mezzo il mare. Welcome to Raccoon City è scritto e tagliato talmente male che il montaggio non azzoppa solo il ritmo del film. 


Metti che insieme a una fotografia scura, fioca, monotona e pastosissima per coprire le ovvie carenze di budget, a un certo punto non capisci manco più dove e cosa stanno facendo i personaggi. Oltre ad avere un carattere e uno spessore, in modo che uno possa identificarli e appassionarsi a loro, c'è necessariamente bisogno di sapere dove si trovino i personaggi nello spazio affinché possa esserci almeno un minimo di tensione. Altrimenti, sono solo immagini che scorrono davanti agli occhi.

Il punto è che un videogame può durare pure centocinquanta ore, a fronte di una storia riassumibile in due righe su un post-it. Questo è possibile in quanto l’obiettivo principale non è raccontarti una storia attraverso la visione passiva di una trama, ma chiamarti a partecipare attivamente a quella storia che avanza solo tramite le tue azioni. Cosa che si riflette anche nella struttura dei personaggi che non affrontano un vero e proprio sviluppo.

Tutto ciò che hai bisogno di sapere su di loro, generalmente viene spiegato nei primi cinque minuti di gioco. Una semplice caratterizzazione verticale all'interno di una storia, proprio perché non c'è - o almeno prima non c'era - la possibilità di uno sviluppo orizzontale attraverso la trama. In un film questo non accade e, se elimini la parte ludico-attiva, rimani giusto con quelle due righe di post-it. Valle a riempire, poi, centoventi pagine di sceneggiatura. Puoi farlo? Certo. 


Il problema non è farlo, semmai è come, in che modo lo fai. Nel bene o nel male, giusto o sbagliato, Romero all'epoca aveva comunque capito di avere fra le mani una semplice struttura a cui bisognava aggiungere tutto il resto così da poter dar vita a una storia. Non poteva mica fare un film in cui i personaggi si limitavano ad andare in giro a cercare indizi nel tentativo di risolvere enigmi per ottenere i medaglioni per sbloccare la serratura di una porta, insomma.  
 
Resident Evil: Welcome to Raccoon City è l’esempio perfetto di come non andrebbero fatte le cose. Questo non è cinema, ma semplice fanservice; e fatto pure male, del resto. Non c’è quasi nulla a reggere giusto un tot di ambientazioni e cose a marchio registrato. Come spettatore, essenzialmente ti ritrovi a guardare una specie di lungo clip show fatto di spezzoni selezionati e montati assieme.


Ebbene detto questo anche per oggi è tutto.

Stay Tuned ma soprattutto Stay Retro.




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