Indiana Jones e il quadrante del destino - di Carlo Vanzina



Indiana Jones e il quadrante del destino è un titolo stranamente appropriato, se uno si ferma giusto un attimo a pensarci. Perché il quadrante è uno strumento di misura utilizzato per calcolare le coordinate celesti. Misurando l'altezza degli astri, la declinazione del Sole e i circoli meridiani, in sostanza, si poteva fare il punto del luogo in cui ci si trovava. Il destino, invece, indica per antonomasia la predeterminazione. 

Cioè, l'ineluttabile insieme di cose prestabilite e immutabili che accadono a prescindere, come determinate a priori da una forza superiore. In altre parole, era scritto nelle stelle, lo si poteva leggere inciso negli astri del firmamento il fatto che Indiana Jones e il quadrante del destino fosse destinato a essere 'na cazzata. Molto brevissimamente, vogliamo provare a ricapitolare un attimo la situazione, sì?

Indiana Jones e il pensionato del destino

Siamo nel 2008 e George Lucas, subito dopo l'uscita di Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, inizia a buttar giù idee e qualche potenziale soggetto per un eventuale quinto film di Indiana Jones. Dopotutto, Harrison Ford c’ha tipo sessantacinque anni, perciò bisogna sbrigarsi a battere il ferro finché è caldo. Allora Lucas ci prova e ci riprova fino al 2012, quando alla fine sbologna tutto alla produttrice Kathleen Kennedy

La Kennedy, nel frattempo diventata presidente della Lucasfilm dopo l’acquisizione della società da parte di Disney, prende in carica il progetto e ci prova e riprova pure lei. Tuttavia, nel 2016, ‘sto progetto è ancora in stallo e Ford ormai ha passato i settanta; allora vengono assunti David Koepp (sceneggiatura) e Steven Spielberg (regia). Sfortunatamente, finisce che arriviamo al 2019 e Koepp viene sfanculato allegramente. Al posto suo, per scrivere il film viene assunto Jonathan Kasdan

Kasdan, però, viene sfanculato subito dopo a sua volta e così vengono assunti i fratelli Jez e John-Henry Butterworth. Attenzione, colpo di scena: dopo aver scritto due sceneggiature, entrambe cestinate, dopo che ogni sforzo era fallito a causa del disaccordo tra Spielberg, Ford e Disney, David Koepp viene riassunto. Perché, a detta sua, i produttori avevano "una buona idea stavolta"

Sì, infatti l'idea era talmente buona che Spielberg saluta tutti quanti e va via. Allora a dirigere (e co-scrivere) il film viene messo James Mangold e nel 2021, finalmente, partono le riprese di Indiana Jones e il quadrante del destino. Nel frattempo, Harrison Ford è arrivato alla soglia degli ottant'anni. Perfetto.

Ora, tutta ‘sta bella pappardella, qui, non è per sfizio; ma serve a sottolineare meglio quello che ormai è il modus operandi, emblematico, adottato da e che contraddistingue Hollywood: se ha funzionato (ha fatto soldi) una volta, funzionerà ancora. Peccato che questa logica porti, poi, a un'inevitabile domanda: ‘na mezza dozzina di cristiani per scrivere ‘sto film, quindici anni di tentativi dopo e alla fine, questo è il risultato, la “buona idea” di cui parlava Koepp?

Cioè, la storia di Indiana Jones e il quadrante del destino è ambientata nell’estate del 1969, all’alba della missione Apollo 11. Ovviamente, lo sbarco sulla Luna è un evento epocale, certo. Intanto... La paranoia generata dalla Guerra Fredda e la corsa alle armi nucleari, per dire. La Crisi dei Missili di Cuba. Il muro di Berlino. La grande rivoluzione culturale di Mao Tse-tung. La rivolta dei Mau-Mau. Il Vietnam e il bombardamento su Saigon. L’Estate dell’Amore, Woodstock e il fenomeno hippy.

Queste per fare un esempio, ma diciamo che ne so’ successe di cose negli anni ‘60, insomma. Adesso metti che Indiana Jones nasce innanzitutto dall’intenzione di George Lucas e Steven Spielberg di portare a schermo una versione "moderna" dei chapter play - film in serie a episodi, versione antesignana delle moderne serie tv - con cui sono cresciuti e con protagonista il classico eroe d’azione, l’avventuriero-esploratore un po’ pirata un po’ signore dei Pulp Magazine anni ‘20 e ‘30.

Allora, perché ambientare la storia proprio nel '69? Perché, fra le tante cose successe in quel decennio, sottolineare in questo modo proprio lo sbarco sulla Luna? Soprattutto considerando che questo è già il primo, grosso sbaglio del film. Perché in questo modo stai defraudando, letteralmente, il personaggio del suo contesto. Spostare Indiana Jones dagli anni ‘30 agli anni ‘70 è come spostare Batman da Gotham a Melegnano. Non ci vuole la scienza per arrivare a capire che se cambi il contesto, cambia il personaggio e cambia l'intera dinamica della struttura che lo rende peculiare. 

Se, almeno, James Mangold avesse provato, fatto il misero tentativo di esplorare in qualche modo questo nuovo contesto in cui Indiana Jones è stato (forzatamente) calato, allora, ancora ancora... Invece, tutto è vacuo ed estremamente vago. L'unico segnale perlomeno evidente che siamo in uno dei periodi, forse più tumultuosi, del XX° secolo sta in quel piccolo accenno all'allunaggio.
Cioè, la "buona idea" che avevano avuto i produttori.

Die Hard, RoboCop, Ghostbusters, Star Wars, Matrix, Terminator, adesso Indiana Jones; quante volte ancora toccherà dimostrare che questa “idea” non funziona? Che un pretesto, da solo, non basta a reggere un film? Appunto, come in Terminator il massimo sforzo degli autori sta nel tentativo di mettere assieme quattro cazzatelle per giustificare l’aspetto sempre più decadente di Arnoldone, così è lo sbarco sulla Luna a fine anni ‘60 in Indiana Jones e il quadrante del destino.

Si tratta semplicemente di un pretesto - realisticamente poco plausibile, considerando la forma mentis del personaggio - buttato lì nel tentativo di giustificare, in primissimo luogo, l’avanzatissima età di Ford; e questo è il secondo grosso problema. Perché, per quanto bene possa portarseli, Harrison Ford c'ha comunque ottant’anni e questo, essenzialmente, si traduce col fatto che non è assolutamente convincente in un ruolo d’azione. 

C’è poco da girarci intorno e provare a prenderci per il culo a vicenda: quando il protagonista non può garantire un livello minimo di plausibilità nelle sequenze di combattimento, inseguimenti, sparatorie e via dicendo – che ricordiamoci sempre, dovrebbero essere il core in un film d’azione - non è praticamente possibile che il film funzioni. Infatti, questo ci porta allegramente al terzo problema: tonnellate e tonnellate di CGI. Per lo più inutile e fine a se stessa.

Cerchiamo di capirci stringendo al massimo il brodo: normalmente un film si basa sulla struttura restaurativa in tre parti: cioè primo, secondo e terzo atto. Nel primo atto, vengono introdotti storia, personaggi, ambiente, motivazioni e bla bla bla. Nel secondo atto si dà forma all’intreccio, si sottolinea il conflitto e tutta un’altra serie di cazzi e mazzi. Poi, nel terzo atto, climax, scioglimento e titoli di coda. Fine. Invece Indiana Jones e il quadrante del destino pare fatto al contrario.


Il film inizia con un prologo ambientato nel 1945 in cui Indiana Jones e il suo grande amico - mai visto o menzionato prima d’ora - Basil Shaw (Toby Jones) tentano di recuperare un manufatto dai nazisti. Ovviamente. In pratica, i due sono alla ricerca della Lancia di Longino. Alla fine, però, Indy da un lato e il fisico nazi Jürgen Voller (Mads Mikkelsen) dall’altro, si accorgono che la Lancia in realtà è un falso. Perciò, nel fuggifuggi generale, Indy e Basil ripiegano, così, al volo, su ‘na cosa completamente (a caso) diversa.

Un affare su cui pure Voller stava tutto impallato: il meccanismo di Antikytera. Cioè, il quadrante del titolo che a quanto pare sarebbe una creazione di Archimede e in grado, sempre a quanto pare, di localizzare fessure temporali permettendo addirittura di viaggiare nel tempo. Eh, tutto molto bello, certo. Su carta, però. Perché 'sto "quadrante", non è il Graal o 'na roba simile su cui ci puoi fare tutti 'sti voli di fantasia; è dal 1950 che si sa cos'è, come funziona e a cosa serviva.

In secondo luogo, per l’intera sequenza è stata impiegata la tecnica de-aging su uno stuntman per dargli la faccia che Harrison Ford aveva nel 1989, all’epoca di Indiana Jones e l’ultima crociata. Ecco, fin quando si tratta di primi piani statici e inquadrature fisse, tutto a posto. L’effetto è fantastico. Appena c’è un po’ di movimento, invece, fosse anche solo farlo parlare, crolla tutto immediatamente e altrettanto immediatamente ti accorgi che quello è un pupazzo in CGI.


Per ovviare al problema, nel tentativo di mascherare la palese pupazzosità senz’anima dell’Indiana Jones in CGI, si va, come al solito in questi casi, di sottoesposizione a manetta oscurando tutto. A parte questo, poi, devi mettere in conto che non solo l’ambientazione è notturna e in più, come se non bastasse, tutto è sottoesposto oltre i limiti del buon senso; roba che manco i film di Zack Snyder o l’ultimo Batman, per dire, c’hanno ‘na fotografia così scura. 

Il fatto è che pure gran parte di ciò che avviene e/o presente sullo schermo è in CGI. Mascherata pesantemente con effetti finto-naturali tipo nebbia, nuvole di polvere, penombra – perché quanto detto sopra non bastava – vapore e via dicendo. Morale della favola: il risultato è un qualcosa che a malapena riesci a vedere e devi sforzarti parecchio per distinguere qualunque cosa stia accadendo a schermo in quel momento; e fosse solo questo…

Il problema è che 'sta cosa dura quasi venticinque minuti. Santo. Cielo. Questa non è una sequenza d’apertura, ma il terzo atto di un altro film. Un terzo atto messo lì, all’inizio, il cui duplice scopo è: caso mai poteva esserci, anche solo il minimo rischio, di un vago colpo di scena o magari un piccolo accenno di sviluppo durante il film, grazie a ‘sto “prologo” il pericolo è stato scongiurato. 


Siccome, a 'sto punto, non devi assolutamente preoccuparti di storia, personaggi, motivazioni e tutto il resto appresso, ché tutto t’è stato spiegato bene bene col cucchiaino, Indiana Jones e il quadrante del destino può tranquillamente prendere l’esatta forma di un classico cinecomics made in Disney. Appunto, nel presente (del film) Indy si ritrova con la figlia ormai adulta di Basil, Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge) a caccia del quadrante in competizione con i nazisti. Punto.

Dopodiché, il resto di Indiana Jones e il quadrante del destino, circa due ore, si divide in tre grosse macro-sequenze: l’inseguimento a New York. L’inseguimento a Tangeri. L’inseguimento in Sicilia. In tutto questo, il punto non è tanto il fatto che l’intera trama di un film con un running time – spaventosamente quanto inutilmente sovradimensionato - di due ore e mezza sia riassumibile su di un post-it. Semmai, il problema è che tutto questo si traduce in pura noia.

All'inizio, nel "prologo", Mangold dà pure l'impressione di averci provato, almeno a ricalcare (copiare male) lo stile di Spielberg. Poi, però è come se all'improvviso si fosse scordato che questo è Indiana Jones e non un altro stramaledettissimo film di Wolverine. Il problema, l'ennesimo, non sta nel fatto che il film dia l'impressione di essere un cinecomics, no; è stato proprio fatto seguendo la formula dei cinecomics a marchio Disney.


Man mano che le sequenze d’azione vanno avanti e perciò, in qualche modo, bisogna aumentare la posta in gioco, complice il disperato tentativo di mascherare l’età di Ford tutto viene dilatato stupidamente, ripiegando su concetti clamorosamente esagerati e la CGI, prende completamente il sopravvento. L’abuso di effetto MTV e montaggio rapido eliminano ogni senso di realismo, dando al film un ritmo schizofrenico, una fisica fumettistica e un taglio da cinecomics.

In altre parole, Indiana Jones e il quadrante del destino è l'ennesimo mucchietto di roba messa assieme senza ispirazione, anonima e senza personalità che si perde nel mare dei precedenti quaranta cinecomics fatti in serie con lo stampino che non offre nulla di visivamente significativo e/o rilevante. Esattamente come non riesce a comunicare nulla di vagamente allettante a livello narrativo. Nel senso, uno non sta dicendo che devi chiamare Elmore Leonard per scrivere il film, ok? 

Però, cerchiamo un attimo di andare un pochino oltre il livello di un generico episodio di Peppa Pig. Fondamentalmente, qui, non è una questione di pigrizia narrativa; il fatto è che manca proprio una narrazione. La trama avanza per coincidenze via via sempre più ridicole e due ore e passa di film se ne vanno così, coi cattivi che inseguono i buoni, i buoni inseguono i cattivi, i cattivi inseguono di nuovo i buoni e così via, senza una logica di base. I personaggi, poi, esattamente come la trama, sono piatti, monodimensionali e agiscono in modi per lo più casuali. 


Caso emblematico: Helena. Una figlioccia che viene fuori così, de botto, a cui non riesci mai a dare un vero peso - figuriamoci affezionarsi al personaggio - perché, non la sua non-personalità, ma il suo comportamento varia di volta in volta per adattarsi in quel momento alla sceneggiatura. Perché, sai com'è, oggi siamo arrivati al punto che i film devono durare, per forza, minimo due ore e qualcosa. Perciò, ci troviamo con la sceneggiatura completamente asservita, piegata in funzione del minutaggio del film in una serie di lungaggini estreme. 

Un brodo allungato oltre ogni logica che qui diventa ancor più estenuante a causa di altri due fattori. Il primo, sta nella "buona idea" di ambientare il film nel '69: a parte giustificare gli ottant’anni di Harrison Ford, la storia dell’allunaggio serve semplicemente a legittimare, negli anni '70, di nuovo Indiana Jones contro i nazisti. Come? L'Operazione Paperclip, naturalmente. Il programma segreto con cui gli americani si portarono in patria un migliaio d'ingegneri e tecnici della Germania nazista dopo la guerra.

Infatti, nel film, Voller è uno di questi scienziati nazisti che ha contribuito alla riuscita della missione Apollo 11. Capito? I nazisti. Ovvero, gli unici nemici che puoi mostrare apertamente cattivi e con cui puoi prendertela, senza correre il rischio, secondo le attuali sensibilità cinematografiche, di offendere qualcuno o qualcosa. Ecco il perché di sottolineare proprio lo sbarco sullo Luna a scapito di tutto ciò che è successo nel mondo nell'arco degli anni '60. Proprio una grandissima idea, insomma.


Un'idea di un piattume devastante a misura PG-13 che, in secondo luogo, si riflette anche nei dialoghi. Ridotti semplicemente a un'accozzaglia di spiegazioni raffazzonate, affermazioni e/o comandi a misura di TikTok che cadono, puntualmente, ogni volta che i personaggi hanno superato un livello e devono passare allo stage successivo. L'unica volta che in Indiana Jones e il quadrante del destino un dialogo va oltre questo, cioè, oltre i venti secondi, sta nella scena in cui devono liquidare, "molto elegantemente", Mutt, il figlio di Indy interpretato da Shia LaBeouf.

A proposito di Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo: la cosa buffa sta nel fatto che uno, se non forse il più grosso problema di quel film, era una svolta decisamente troppo, troppo sopra le righe in netta dissonanza con ciò che essenzialmente Indiana Jones rappresenta. Un finale che arrivava a sproposito, in contrasto con la ragionevole spinta verso la sospensione dell'incredulità dei film precedenti, mandando tutto in vacca. 

Proprio per questo, invece di correggere il tiro, hanno deciso di fare addirittura peggio in Indiana Jones e il quadrante del destino. Se il finale de il regno del teschio di cristallo era assurdo e troppo esagerato, quello del quadrante del destino è degno di A spasso nel tempo di Vanzina. Ancor più assurdo, esagerato e straniante del precedente, più in linea con un episodio della serie animata di Ritorno al futuro anziché con una qualsiasi altra cosa riguardo Indiana Jones.  


Con Indiana Jones e il quadrante del destino, Disney è riuscita a confermare ancora una volta due cose: che il passato è passato e tale deve rimanere, e che buttare soldi all'infinito non è come lanciare un incantesimo. Hai voglia a spenderci soldi, le cose non le risolvi, così, per magia. Se a qualcuno fosse sfuggito, 'sto quadrante del destino è venuto a fare trecento milioni. Trecento. Milioni. Solo di produzione, eh; e alla fine?

Alla fine Indiana Jones e il quadrante del destino non è altro che l’ennesimo clone, freddo e senz’anima, di un’icona del passato trascinata a forza in un’epoca che non gli appartiene. Un prodotto confuso e discontinuo che somiglia vagamente ai suoi predecessori, ma alla cui base non c’è assolutamente nulla che non sia un disperato tentativo di autogiustificare la sua stessa esistenza. Una semplice palla di fanservice messa assieme alla meno peggio, il cui unico scopo è provare a vendere nostalgia a un pubblico che non esiste.


Ebbene, detto questo anche per oggi è tutto.

Stay Tuned ma soprattutto Stay Retro.



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