BARB WIRE - Pamela Anderson e i cinecomics


Barb Wire è una storia che risale a un tempo lontanissimo, il tempo dei miti e delle leggende, quando le antiche case editrici di fumetti americane erano crudeli e meschine. Soltanto un uomo osò sfidare la loro potenza: Todd McFarlane. McFarlane era in possesso di una forza sconosciuta sulla Terra.

Una forza superata solo dal suo coraggio, ma dovunque andasse era perseguitato dalla matrigna Marvel, la potentissima regina delle grandi case editrici. L’eterna ossessione della Marvel era annientare McFarlane: lui era la testimonianza vivente dell’infedeltà dei fumettisti.

Barb Wire, Pamela Anderson e i cinecomics


Barb Wire è un film strano, molto strano per una sfilza di motivi, risalente ai tempi in cui cominciava a farsi maretta tra fumettisti e case editrici. Nei primi anni ottanta la crescita delle fumetterie ha un boom esponenziale, cosa che ha dato vita a tanti nuovi editori e aprendo così nuovi orizzonti.

Al di là del tradizionale binomio Marvel-Dc, ora c’erano Mike Richardson con la sua Dark Horse Comics. Poi la Malibu Comics, poi ancora c'era la Image di Todd McFarlane e via dicendo. Anzi, a proposito della Image: sì, l’idea alla base era di quel riottoso di McFarlane, certo.

Però, alla fine, la Image l’ha fondata insieme a Rob Liefeld, Erik Larsen, Jim Lee, Jim Valentino, Marc Silvestri e Whilce Portacio. Tutti insieme appassionatamente. Mettici pure che ognuno, a sua volta, ha fondato parallelamente una propria “sotto-casa editrice”...


Tipo Jim Lee aveva la sua Wildstorm, Marc Silvestri se n’era uscito con la Top Cow, Rob Liefeld con gli Extreme Studios e così via. Il discorso è lungo e complesso, insomma. Comunque, quello tra la seconda metà degli anni ottanta e la prima metà degli anni novanta è stato un periodo di grande fermento creativo. Tutto rose e fiori? Assolutamente no.

Barb Wire è l’eroina che meritiamo e pure quella di cui abbiamo bisogno adesso

Un sacco di roba non valeva la carta su cui era stampata. Tuttavia c’era, come dire, uno spirito pionieristico, la voglia di osare, di creare. Tipo, se una cosa nuova piace ai lettori di fumetti avanti così. Altrimenti si passa ad altro e vediamo come va. Ecco, Barb Wire si colloca in questo periodo.

Barb Wire è stata creata dallo sceneggiatore Chris Warner nel 1993, ai tempi in cui era membro del Team CGW - sigla che sta per Comics’ Greatest World - gruppo di cinque creators alla guida della linea Comics’ Greatest World, un'etichetta della Dark Horse.

Ora, attenzione, perché ogni membro del team s'è occupato di una specifica ambientazione, delle storie e dei personaggi che apparivano nel mondo di Comics’ Greatest World. In particolare, Warner ha creato la megalopoli Steel Harbor, la cornice dentro la quale si muovono diverse serie.


Per capirci, le storie di Barb Wire sono ambientate a Steel Harbor. È una delle megalopoli, insieme ad Arcadia, il Vortex e compagnia cantante, che costituiscono il mondo immaginato dagli autori del team. Capito il punto? Ecco, prendere 'sta roba e farci un film… Cosa mai potrà andare storto? Cioè, a parte tutto quanto.

Quindi, siamo nell’ormai passato futuro 2017, naturalmente distopico, in cui gli Stati Uniti, tanto per cambiare, si ritrovano coinvolti in un conflitto che ha portato al crollo della società così come la conosciamo.

Il conflitto, giusto per, sarebbe la Seconda guerra civile americana. Da un lato, senza la benché minima e più miserabile delle spiegazioni, c’è un governo totalitario di stampo dittatoriale. Dall’altro un esercito di ribelli che si rifà ai “vecchi archetipi” del sistema democratico.

Nel mezzo, Barbara “Barb Wire” Kopetski, che vive nell’unica città neutrale in tutti gli States, Steel Harbor, appunto. Che te lo dico a fare, trattandosi di una “zona franca”, Steel Harbor è abitata da cacciatori di taglie, criminali q.b. e gente pericolosa a titolo generico.


Tuttavia, Barb Wire mica è l’ultima dei fessi, eh. Una volta lasciato l’esercito, se n’è tornata a Steel Harbor dove ha aperto un bar, Hammerhead, copertura per il suo lavoro di cacciatrice di taglie-mercenaria-spogliarellista.

A un certo punto, tra un balletto e un omicidio, il suo ex compagno si presenta all’Hammerhead per chiederle aiuto. In sostanza, gli serve qualcuno per proteggere la dottoressa Corrina “Cora D” Devonshire, disertrice in fuga per il Canada.

La dottoressologa è in possesso di questa fanta-ultra-tecnologia in grado di cambiare le sorti del conflitto: una specie di smart glasses in grado di eludere i radar del governo. O comunque una cazzata simile. Detto fatto.

Barb realizza dunque che ci sono cose più importanti del guadagno personale. Mettendo da parte il suo “cinismo” e la sua “disillusione”, decide di aiutare il suo ex e la dottoressa, facendosi strada tra un sacco di cattivi generici buttati a caso per fare body-count.


Ora, partiamo da questo punto: ci sono un sacco, ma un sacco di momenti strani in questo film. Forse perché, per quanto assurdo e allucinante possa sembrare, Barb Wire è dichiaratamente una specie di remake, in versione sci-fi, di… Casablanca.

Ecco, se dici di voler fare un remake di Casablanca e fai partire in quarta il film con una sequenza di quasi sei minuti in cui Pamela Anderson, l’interprete di Barb Wire, si spoglia sbattendoti in faccia i capezzoli inzuppati di champagne e poi ammazza uno bucandogli il cranio con un tacco a spillo, beh…

Signori, avevate la mia curiosità, ma ora avete la mia attenzione.

Mettere le parole Pamela Anderson e recitazione nella stessa frase quantomeno è un ossimoro. Stare zitta e mettersi in posa è l’unica cosa, almeno all’epoca, che le riusciva bene. Basterebbe questo.

Tuttavia, il film è (o meglio, sarebbe e lo sarebbe con molta fantasia) un remake di Casablanca. Barb Wire dovrebbe essere, su carta, una giustapposizione di Rick Blaine. Vedere Pamela Anderson che prova a fare questa specie d’imitazione di Humphrey Bogart è semplicemente terrificante.


D’altra parte, pure a sostituire la Anderson con una Meryl Streep a caso non è che sarebbe servito a chissà cosa. Si tratta proprio del personaggio che non funziona, a prescindere dalla performance. Un personaggio, un eroe privo di difetti e praticamente perfetto è noioso.

Non ha ethos, non ha carattere, non ha sviluppo. E visto che non c’è alcun personaggio secondario interessante, o almeno degno di nota, su cui poggiare il carico emozionale e mandare avanti il film, capisci che il problema sta a monte.

Questa, del resto, è solo la proverbiale punta dell’iceberg… Tuttavia, a cuore aperto: prendere e demolire un film come Barb Wire, un film tirato su con quattro spicci, due preghiere e qualche sputo, sarebbe immensamente facile.

Le battute te le mette sul piatto d’argento, proprio. Ma sarebbe, appunto, come andare a pesca in un barile con la dinamite. Molto più interessante, sempre e naturalmente armati del consueto senno di poi, esplorare lo sfondo.


Presente la sequenza della stazione di servizio in Non è un paese per vecchi, quella in cui, senza saperlo, il proprietario si gioca la vita a testa o croce con Anton Chigurh? Alla fine, il tipo sceglie ed esce testa. Ha vinto, si è salvato senza manco capire come.

Chigurh, a proposito della moneta, dice: “Non la mettere in tasca, amico. Non la mettere in tasca, è il tuo portafortuna. Mettila dove ti pare ma non in tasca. Si mescolerebbe con le altre e diventerebbe una moneta qualunque. E di fatto lo è”.

Barb Wire è praticamente la stessa cosa: di fatto un film orribile. Reso affascinante, però, da qualche strana ragione. Per esempio, vattelapesca adesso chi sia il production designer del film, ma sta di fatto che ha tirato fuori qualcosa di assurdo.

Le scenografie sono incredibili, a maggior ragione se si prende in considerazione quanto miserabile fosse il budget. I set, le comparse, tutto è stranamente bello, ben dettagliato, caratteristico. Roba che fa sembrare il film molto più grande di quel che è.


Questo è il punto: tutti quelli che hanno lavorato a Barb Wire sapevano che non stavano realizzando il film della vita, però non l’hanno usato come scusa per essere sciatti, pigri e buttarla in cagnara. In altre parole, Barb Wire è un film brutto. Brutto, ma vivo. Si nota perfettamente che c’è tanto lavoro, fatto da gente che non ha pianificato una serie di film da duecento milioni l’uno attraverso complesse strategie di marketing e analisi di mercato.

Semplicemente, Barb Wire sembrava bello su carta e, perciò, sembrava poter essere divertente su pellicola. Stranamente energico e bizzarramente squilibrato, si tratta del tentativo, per quanto poco riuscito, di creare qualcosa. Proviamoci, facciamolo e vediamo come va. Se piace, piace, altrimenti passiamo ad altro. 

C’è più valore in questo semplice concetto di quanto ce ne sia in film dal budget dieci volte più grande. Un fatto, del resto, tanto incoraggiante quanto deprimente.


 

Ebbene, detto questo anche per oggi è tutto.


Stay Tuned, ma soprattutto Stay Retro.


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